Se, come recita il celebre adagio, verba volant et scripta manent, è anche vero che le parole, grazie al loro legame inscindibile con la cultura e con la mentalità dell’epoca in cui nascono, si diffondono e vengono usate, possono riportarci alla pesantezza del nostro essere, al ricordo del tempo che fu, a quella “rosa che non colsi” nella quale si racchiude spesso il senso dell’esistenza. Così, mossi dall’intento impossibile di bloccare, grazie alle parole, il flusso incessante del tempo, gli autori di questo dizionario autobiografico collettivo si sono raccontati attraverso centinaia di termini ormai dimenticati, desueti o addirittura scomparsi, anche se vi fu un tempo in cui scandivano la loro e la nostra quotidianità.
Da “arcolaio” a “zolfanello”, da “duplex” a “yè-yè”, da “madia” a “ranno”, da “sinforosa” a “zabetta” il filo delle parole si dipana attraverso cinquant’anni di storia italiana, ricordandoci come eravamo e come siamo cambiati passando, nel giro di pochi decenni, dai ritmi ciclici del mondo contadino a quelli frenetici e lineari della condizione postmoderna. Ma in questa rassegna di parole dimenticate, ma ancora ricche di risonanze, così come nella disposizione d’animo degli autori, non c’è spazio per la sterile nostalgia: il lettore, infatti, si accosta a un mondo ormai lontano, ma tutt’altro che trasfigurato dal ricordo che riemerge in tutta la sua vividezza.
Un’occasione per riflettere, per sognare, per ricordare, ma anche per lasciarsi coinvolgere nelle storie rare, bizzarre, spaventose, avvincenti e divertenti degli autori che, come scrive Duccio Demetrio nella Prefazione, ci restituiscono le parole nel tempo «non nella preziosità un po’ algida del lemma ormai perduto», ma «nella vivacità del racconto breve, madido di esperienza».