Duccio Demetrio*
L’ombra delle parole
Non siamo abituati a pensare che le parole scritte abbiano un’ombra. Siamo troppo assuefatti a vederle schiacciate sulle pagine in posizione solitamente orizzontale; assistiamo alla loro nascita tra le nostre dita, le quali ombreggiano appena, con il palmo della mano, lo spazio sottostante dei fogli. Qualche volta si dispongono in rilievo grazie a qualche trucco grafico, sbalzano verso di noi proiettando flebili contorni. Ma nulla più. Anche le parole con una voce non pare proprio ne abbiano una di ombra: a meno che quanto diciamo o ascoltiamo non ci faccia sobbalzare, alzare, fuggire. E allora quelle esclamazioni gridate sembrano disseminare dietro e attorno a noi tracce visibili del loro senso. Nuvole plumbee di idee sbagliate, di promesse non mantenute, di minacce d’ abbandono.
«Le parole sono pietre», diceva Carlo Levi: una metafora ben scelta, sia ad indicare la loro scabrezza, sia a raffigurare quel cono d’ombra che qualunque cosa provvista di un volume, seppur effimero, lascia accanto, dietro, davanti a sé a seconda dell’ora del giorno. Ma le parole sono anche incise sulle lapidi, sulle stele, sui paracarri, dove, come scrittura graffiata o scolpita, conobbero anticamente il loro primo
alloggio.
Poiché le parole non hanno dunque un’ombra, se non per nostro tramite o grazie a qualche supporto troppo ingombrante, potremmo ritenerle figlie di una forza demoniaca. È ben noto infatti che il principe delle tenebre e i suoi affiliati, anime perse comprese, possono fare a meno di questa compagnia lugubre. Meglio quindi, anche se informe, averne una di ombra. Dal destino delle parole cui essa è stata negata (bello sarebbe vederle passeggiare in sfilata come corpi, piccini o ingombranti, per godersele di più nella loro tri o quadrimensionalità), purtroppo, non nascono ectoplasmi consistenti, rassicuranti, o piacevoli. Eppure, forse non sono queste le ombre che vorrebbero anche loro avere, che desidererebbero le seguissero passo dopo passo. Altra, semmai, è la loro natura umbratile. È fatta, oltre che della materia dei sogni (come tutti noi), del loro passato. Delle scie e degli echi rimasti troppo indietro, di qualche sonorità perduta, di significati ritrovabili nei dizionari. Anche questi ultimi ormai, dopo i lemmari informatici, si sono spogliati di quell’ombra importante che a scuola ci permetteva di copiare le minute dei compagni più generosi o già affetti dal senso del commercio. Ma non si tratta soltanto di queste ombre immaginarie o possibili.
L’ombra delle parole pronunciate e scritte germina ogni volta dal nostro inconscio, se qualcuno sa farsene levatrice: quando, con vergogna (parola presto destinata all’estinzione), ci rammentiamo di tutte quelle consorelle che abbiamo sprecato, usato come rasoi affilati o randelli; quando riaffiorano alla mente in forma di racconti, di traumi, di situazioni spiacevoli e dolorose; quando siamo noi ad adombrarne il senso, per sfuggire alla troppa luce dei discorsi razionali, delle verità imbarazzanti e impudiche, dei riflettori troppo diretti.
Non mancano gli archeologi di queste parole. Ci sono gli esploratori dei mali della nostra psiche, i quali cercano di liberarle della polvere della smemoratezza reale o furbesca nella quale le abbiamo avvolte. Ci sono i togati accademici della Crusca che le mettono in soggezione. Ci sono coloro che le riscoprono nei diari di famiglia o nelle vecchie carte o riascoltando nastri logori. C’è chi va cercarle nei libri antichi o soltanto di pochi anni fa, tanto presto hanno preso ad invecchiare.
E poi, per fortuna, ci sono Germana ed Alfredo che, aiutati da una folla di autobiografi delle parole ritrovate, ce le restituiscono non nella preziosità un po’ algida del lemma ormai perduto, non nella freddezza, spesso oscura, della definizione acidula e disincarnata, bensì nella vivacità del racconto breve, madido di esperienza. Questo sono riusciti a donarci i promotori e i narratori di queste parole estinte o a rischio di diventare tali con il loro antidizionario; anzi, con questa sorta di sillabario destinato a chi potrà riconoscerle, queste parole, ancora di più e a rievocarle perché circondate da affetti, da climi memorabili, da umori, dalle persone mitiche che ce le insegnarono. Il loro lavoro collettivo per lo più tra sconosciuti, ma affiatatissimi nell’identico intento, ci consente di ridare consistenza quasi fisica a questo glossario tratto dalla vita quotidiana.
Non è del tutto vero, allora, che le parole non abbiano un’ombra: gliela diamo noi, la estraiamo noi dal passato personale per condividerle e riapprenderle insieme. Trasfondiamo in esse la sagoma del nostro corpo che le va leggendo, nella cura preziosa di chi ha saputo salvarle non solo come intimi beni rifugio, ma come parole per tutti.
*Duccio Demetrio è docente di Filosofia dell’ educazione e della narrazione all’ Università degli studi di Milano-Bicocca. Fondatore e direttore scientifico della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, è autore di numerosi saggi dedicati alla condizione adulta, alla memoria, alla scrittura. Ha pubblicato di recente: Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione, R. Cortina, 2011.