di Francesco Samorè, 11 febbraio 2012

Nel titolo del libro, nel sottotitolo e nella ulteriore specificazione che campeggia in copertina appena sopra il nome del curatore (Dizionario autobiografico collettivo) è suggerita – senza ridondanze – la varietà di letture che di questo lavoro possono farsi.
Un pensiero a commento del volume deve anzitutto rispettare lo sforzo di brevità che gli autori hanno compiuto nel definire le parole scelte per essere «salvate» attraverso il ricordo. E lo si rispetta con un commento sintetico. Bisogna denunciare la natura degli «occhiali» indossati per leggere: la mia è una formazione ai metodi della storia e ciò – insieme al legame con due autori del volume – ha motivato il primo interesse per questo Dizionario.
Da anni la storia contemporanea ricorre alle interviste, la cosiddetta memoria orale, per incrociare la documentazione archivistica tradizionale, verificarla e «vivificarla». Ora, questo non è un libro di storia, ma a mio avviso un vero (e rigoroso, nel rispetto degli obiettivi comuni definiti dagli stessi estensori) scritto sul ricordo.
L’interesse che recentemente si è sviluppato intorno alla memoria – complice lo sviluppo delle neuroscienze e la riflessione sul destino degli archivi digitali – consente di affermare che una testimonianza «dipende dall’interazione di tre elementi: il contenuto del ricordo, il contenuto dell’evento cui il testimone si riferisce, i processi di recupero relativi a che cosa il testimone intende riportare e a come intende riportarlo»1.
A chiunque sfogli il nostro libro è subito evidente come le parole scelte siano il movente per narrare un ricordo corrispondente, biografico e quindi personalissimo. Eppure una delle scelte editoriali che ho preferito è stata far corrispondere alla stessa parola i ricordi (formalmente le definizioni) di autori diversi; il confronto tra «memorie» acquista così rotondità, avvalorando indirettamente quanto scritto da Paul Ricoeur, secondo il quale la testimonianza dice tre cose: «io c’ero», «credimi» e «se non mi credi, chiedi a qualcun’altro»2.
E poi la scelta delle centinaia di parole raccolte nel libro non ha «solo» valenza autobiografica, perchè richiama anche i «ricordi dei ricordi», ovvero i ricordi che appartengono ad altri, ma noi scegliamo di riferire (capita spesso che gli autori dicano: «mio padre raccontava», ecc.); e c’è la memoria eterobiografica, cioè la memoria che conserviamo di un’altra persona. O ancora, sono svariati gli esempi di parole che descrivono gli strumenti di lavoro (e di svago), e la relazione dell’autore con essi: dalla macchina per scrivere al Meccano.
In ogni caso, l’esperienza di lettura è stata per me, soprattutto, esperienza letteraria. È un libro zeppo di ironia – anzi direi che, per merito di chi lo ha compilato, questa è la cifra principale – ma nella stessa pagina puoi trovare la malinconia e addirittura l’esperienza del tragico.
Infine, è un’efficace dimostrazione di quanto molteplici possano essere le strade per «ripescare» le esperienze che costellano la vita di ciascuno. Una consolazione per chi, come faceva Bobbio (riempitore, per tutta l’esistenza, di disordinati e sparsi foglietti di annotazioni), si rammarica di non poter condividere quanto scrisse John Ruskin nel 1840: «E’ una gran seccatura tenere un diario, ma anche una grande delizia averlo tenuto»3.

1 – Cito da Roberta Garruccio, Memoria: una fonte per la mano sinistra. Letteratura ed esperienze di ricerca su fonti e archivi orali, «Culture e impresa», n. 2 – 2005

2 – Anche qui traggo la citazione dallo scritto di Garruccio.

3 – La citazione di Ruskin è tratta da N. Bobbio, De Senectute, Einaudi, p. 3